L’NFT di “Novecento”, si intravedono nuovi orizzonti.

Ho letto THE GAME di Baricco durante la pandemia e c’ho trovato tanto del mio vissuto di giovane Cinquantenne, nato all’alba dell’era digitale e che ha attraversato ogni momento dello sviluppo di questo “nuovo mondo”. Nuovo mondo sul lavoro ma in realtà, ovunque: film, musica, testi, comunicazioni, contatti, apprendimenti, conoscenza, informazione, firme, identità, soldi … tutto passato nel digitale o in corso di passaggio. Mi è sempre piaciuto Baricco, come scrittore ma soprattutto come autore poliedrico (mitico il suo TOTEM) e quindi quando posso, lo seguo. Oggi (15 gennaio 2022) su Repubblica un nuovo capitolo del suo essere scrittore, che parla non solo di letteratura, ma anche di nuovi mondi. Lo condivido nel mio sito perchè, secondo me, l’argomento ci riguarderà tutti…

Avrei una storia da raccontare. Che mi è successa. O che ho fatto succedere, non so. Sfumature. La racconto perché lì dentro c’è quel che mi preme dire su una svolta, l’ennesima, che sta modificando la nostra civiltà digitale. In un certo senso è un capitolo che sento di dover aggiungere a The Game: un libro che, lo so, non smetterò mai di scrivere.

Alessandro Baricco 

Allora. Il primo giorno del 2022, smaltito il cenone, e sfuggito ai medici che mi stavano marcando stretto (ma questa è un’altra storia) mi sono chiuso in un piccolo studio di registrazione. Un amico che lavora col suono ha sistemato il microfono e altre cose che sapeva lui. Quando tutto era pronto, mi son messo a leggere Novecento, dalla prima riga all’ultima. L’ho fatto a voce alta, come se lo leggessi a me stesso. Il mio amico ha registrato. Poi ha editato per bene e alla fine mi ha consegnato un file di 80 megabyte, lungo 85 minuti. Qualche giorno fa ho preso quel file e, con l’aiuto di un altro amico che invece sa di blockchain, l’ho coniato (minting), generando quello che si chiama un NFT. Oggi l’ho messo in vetrina su OpenSea, unmarketplace di NFT molto popolare. Titolo dell’opera: NovecentoThe source code. Nel mese di marzo 2022 sarà messo in vendita su blockchain Ethereum.

Se qualcuno si chiedesse perché ho fatto tutto questo casino la risposta è questa: volevo andare a vedere. Ho intravisto da lontano un’insospettabile rivoluzione del Game, e questa volta, invece che starmene lì a studiarla da casa mia, sono andato a vedere.

Posso spiegare.
Intanto ci sarebbe da capire cos’è un NFT.
Tutto nasce dalle criptovalute, cioè da quel denaro digitale che ha iniziato a esistere nel 2009, con la creazione dei Bitcoin. Alla fine si tratta pur sempre di monete, per quanto digitali, e quindi anche lì si pone il problema di coniarle, cioè di produrle e di assicurarne in qualche modo l’autenticità. La soluzione a questo problema non è una Zecca dello Stato che si mette a stampare denaro, ma un protocollo distribuito che si chiama blockchain. Va immaginato come una sorta di registro in cui oggetti digitali vengono fissati per sempre, autenticati e resi intoccabili. Curiosamente, non è controllato da un proprietario o da una banca: è una neutrale creatura matematica e la possiede una comunità che in quel registro si riconosce. Nessuna autorità superiore, nessun istituto bancario: è una comunità che si autodetermina. Fine.

Chi eventualmente fosse interessato a fare soldi con le criptovalute, può approfondire la faccenda. Qui è importante capire, piuttosto, uno snodo che si è prodotto quattro anni fa. Il fatto che si potessero autenticare dei dati digitali, in un certo senso coniarli, renderli immodificabili per sempre, ha acceso qualcosa nella testa di chi nel frattempo si occupava di arte contemporanea e in particolare di arte contemporanea digitale. Si devono essere detti: ma se io uso una blockchain non per coniare una criptovaluta, ma per autenticare un oggetto d’arte digitale, posso creare un originale di quell’opera, un numero zero unico per sempre, come i girasoli di Van Gogh quelli “veri”, non quelli che ci sono sulle tovagliette degli alberghi. In qualche modo conio una moneta (un token) che non uso come una moneta, per scambiarla, ma come un unicum, tipo la Numero Uno di Zio Paperone, per dire: una moneta non scambiabile ma da collezione (un Non-Fungible Token, un NFT). Se crei una cosa del genere, si saranno detti, hai creato qualcosa che chi investe in arte contemporanea può iniziare a trovare interessante. Quelli vanno pazzi per l’originale, l’autentico, il pezzo unico che un solo uomo al mondo possiede.

Non era un ragionamento sbagliato, a quanto pare. Nel 2021, da Christie’s è stato messo all’asta e venduto un NFT per la curiosa cifra di 69,4 milioni di dollari. Era un NFT generato dall’opera d’arte Everydays: the First 5000 Days. Autore, un digital artist americano noto come Beetle. Non era un caso isolato. Oggi la maggiore piattaforma che vende NFT – OpenSea – fattura due miliardi di dollari all’anno. (Ci son andato a fare un giro, e non è stato gradevolissimo. Da vero uomo novecentesco gironzolavo a cercare cose belle. Non è, mi hanno insegnato, il modo più appropriato. Può aiutare pensare all’arte concettuale, più che alle Madonne del ‘400: allora si inizia a percepire il senso del tutto.)

Una volta capito cosa sono gli NFT, si accede a quello che mi è sembrato il secondo livello del gioco: capire che non sono una circoscritta perversione della cripto art (nel qual caso, in fondo, chissenefrega), ma l’annuncio abbastanza chiaro di qualcosa che sta per succedere, e che riguarderà tutti quanti. Sono il segnale che un muro è saltato, una diga, un qualche steccato; non sono una variante brillante del gioco, sono l’apertura di un gioco diverso. Quello che si intravede negli NFT è una cultura, perfino un’etica, sicuramente uno stile di vita. Tutto si appoggia sull’esistenza di comunità che si gestiscono autonomamente riconoscendo e condividendo l’autorità di un libro mastro comune, una blockchain. Oggi i membri di quelle comunità si scambiano denaro senza che ci sia una sola banca a mediare la cosa, e la domenica mercanteggiano in opere d’arte bruttine o gadget di videogame. Ma in un domani neanche tanto lontano si scambieranno servizi di ogni tipo, quote di sapere, sistemi di governance. In un certo senso, con lo stesso semplice processo con cui io ho coniato un NFT, milioni di individui conieranno se stessi, in un tempo non molto lontano, iniziando a esistere in comunità nate dal basso, autogestite e geograficamente situate in un mondo parallelo. Imagine all the people…

Se vi state chiedendo quale sarà la relazione tra queste comunità separate e il mondo “reale”, il primo mondo, vi state facendo la domanda del momento. In ballo c’è il famoso metaverso, quello che in The Game io chiamavo l’oltremondo. Già in quelle pagine facevo notare come proprio la capacità di esistere su due piattaforme – un mondo primo, e un oltremondo – e di farlo in modo armonico, generando un unico sistema di realtà, fosse la capacità da cui si riconoscevano gli adatti al Game, i veri nativi della civiltà digitale. Ma quello che solo tre anni fa era ancora un innocente rimbalzare tra reale e virtuale, ora diventa, con le blockchain, qualcosa di molto più radicale e profondo. Se vi spaventava che vostro figlio avesse una sua immagine sui social che non quadrava con la sua presenza reale nel mondo, aspettate di diventare milionari nel mondo parallelo delle criptovalute e vi passerà la paura. Quando voterete grazie a una blockchain i provvedimenti che la vostra città prenderà il lunedì dopo contro il Covid, da tempo avrete smesso di ritenere una follìa farsi curare da un algoritmo in una clinica che esiste solo nel metaverso.

Insomma, il micidiale triangolo blockchain-criptovalute-NFT annuncia un centro magnetico che sembra capace di attrarre un sacco di cose. È interessante notare come il suo habitat originario sia schiettamente economico: questa volta non c’entra il tempo libero, il desiderio di comunicare, la comunità scientifica, e neanche le esigenze dei militari: il prossimo capitolo del Game nasce in un habitat molto preciso e circoscritto: i soldi. Abbiamo iniziato a manovrare diversamente il denaro, da lì finiremo a manovrare diversamente il lavoro, e concluderemo in bellezza smantellando l’idea tradizionale di Azienda e di Impresa, decollando tutti verso uno scenario tipo “tutti imprenditori, tutti padroni di se stessi”. Tenete a mente questa sigla, DAO, e andate a cercarvi cos’è. L’ennesima mutazione del Capitalismo è in arrivo, gente. Fin d’ora si può intuire che prenderà forza e velocità da un evento che chiarissimo si sta stagliando all’orizzonte: la originaria, principale e totemica ambizione del Game – eliminare le mediazioni e i mediatori – dopo essere sostanzialmente fallita negli anni dieci del millennio, ora sta tornando più forte di prima: e questa volta dispone di armi molto più potenti che uno smartphone. Gli NFT sono lì a testimoniarlo.
Insomma, alla fine della cripto art ci si può anche disinteressare lietamente: ma farlo degli NFT è incauto perché in loro si può riconoscere quel tipo di torsione culturale – apparentemente innocua, ma in verità violentissima – che in anni recenti, ogni volta, ha certificato un cambio radicale del nostro stare al mondo. Bisogna stare attenti, quando la si sente arrivare sotto la pelle. Più che scappare, o perdere tempo a giudicarla, bisogna stare lì a studiarla.


Questa volta ho pensato che il modo migliore per studiarla fosse proprio starci dentro.
Allora mi sono informato: a nessuno era ancora venuto in mente di fare un NFT letterario. Splendida notizia, ho pensato. Poi per alcune notti ho dormito poco. Naturalmente avrei potuto limitarmi a fotografare la prima pagina del mio nuovo romanzo, sullo schermo del mio computer. O farmi un video mentre ne scrivevo un pezzo. Come si dovrebbe ormai aver capito, è l’operazione intellettuale che conta, in questo genere di cose, non tanto la “bellezza”, o la quantità di fatica che fai a produrla. Ma ho poi scoperto che in realtà quando entri nel meccanismo, in quella cultura lì, ti si accendono delle connessioni inaspettate, alcune regole grammaticali, perfino una specie di gusto. E insomma, a un certo punto mi è venuto in mente Novecento.

Sono quasi trent’anni che quel testo viene messo in scena, o letto come libro, o adattato per lo schermo, per le marionette, per le ombre cinesi e non so che altro. Una Babele bellissima, per carità, ma a un certo punto quel che è successo è che mi è venuto un desiderio micidiale di spegnere quel grande brusìo e vedere se ritrovavo l’inizio di tutto quel casino: se ritrovavo il Novecento che io avevo immaginato nell’istante in cui l’ho immaginato. Il suo sound originario, la sua musica autentica, il ritmo a cui l’ho ballato la prima volta. Mi son messo allora a montare uno spettacolo, e ho finito per girare nei teatri, un paio d’anni, a leggere Novecento, per cercare e suonare ogni volta quel sound dell’inizio. Ogni volta che lo leggevo sentivo che scendevo di qualche metro, giù, in quella specie di pozzo. Alla fine mi son ritrovato addosso, nella voce, qualcosa che era davvero, lo so con certezza, il fondo del pozzo. Novecento era lì, perfino bruttino, a tratti, ma originario, iniziale, unico. Ho allora tolto le scene, la musica, le luci, e insomma il palcoscenico. Son venuto via dai teatri. È rimasta giusto la mia voce, in una solitudine priva di pubblico. Nessuna immagine, nessuna parola scritta, solo un suono. Ecco il codice sorgente di tutto, ho pensato. Non so perché mi sia venuta fuori quella espressione, che non c’entra col fare letterario, ma ancora non ne ho trovata una più puntuale: il codice sorgente di Novecento.

Quando me lo sono immaginato, e ancora di più quando l’ho prodotto, il codice sorgente mi è sembrato un oggetto dal valore difficilissimo da definire. Cioè, per dire, dimenticate me e Novecento, fate un bel salto verso l’alto e pensate ad esempio a Cent’anni di solitudine, alla prima pagina di Cent’anni di solitudine: che valore avrebbe poter accedere al codice sorgente di quella pagina? Vederla come è stata per un lungo attimo nella mente di Gabo, subito prima di diventare testo fissato per sempre, e muto, e infinitamente interpretabile. Quanto darei per possedere quel codice sorgente?

Il sistema produttivo in cui gli scrittori lavorano non ha una riposta a questa domanda perché non possiede neanche la domanda. È un sistema precontemporaneo, molto novecentesco, dove esiste quasi soltanto il prodotto finale, che arriva al consumatore attraverso un numero sorprendentemente alto di mediazioni, manco venisse dalle Indie. Da un ventina d’anni gli scrittori hanno cambiato un po’ le cose iniziando a dare valore anche ai loro corpi o al loro fare che esula dalla scrittura. Ma è un processo ancora lento. È riuscito ad alcuni, in fondo pochi. Il sistema resta felicemente arcaico, e neppure il Game è riuscito a scalfirlo più di tanto. Non è solo una questione, credetemi, di profitto: in ballo c’è la capacità di dare valore a un intero gesto, il creare, invece che confinarlo dove avviene la sua contrazione in un oggetto, il libro. La questione può sembrare bizantina, ma è diventata invece molto reale e urgente da quando accanto al mondo reale si è ormeggiato il metaverso, l’oltremondo. Chimicamente più liquido, senza coordinate, libero e veloce, il metaverso è l’habitat ideale di organismi che nel mondo reale non hanno valore, cittadinanza, e nemmeno possibilità di sopravvivenza. Facile immaginare che interi cataloghi di oggetti migreranno da un parte all’altra, trovando, nel metaverso, un valore. Non tanto un profitto, ma un valore. In una diversa vegetazione mentale, sgorgata da un inedito ecosistema del gusto, lo stesso concetto di autore è destinato, lì, a sciogliersi, diventando quella galassia a cui, nel mondo reale, un certo sistema produttivo da industria pesante non riesce a fornire né una gestione né un reale valore. Ciò che nel primo mondo continua a essere valorizzato come una merce qualsiasi – la capacità, in vero rarissima, di generare mondi – nel metaverso è il materiale prezioso per eccellenza. Se c’è una terra promessa per quei disadattati che hanno universi in testa e poco talento per stare al mondo, il metaverso gliela promette. Non è escluso che mantenga la promessa.

Per questo, alla fine, mi chiedevo cosa avevo in mano, con quel codice sorgente di Novecento, e la risposta è stata: un tipico NFT. Leggero, elementare, ruvido, feticistico, immateriale. Tutti i tratti somatici di un NFT. Potevo farne un podcast, per dire, ma invece l’ho fatto migrare più drasticamente nell’oltremondo e l’impressione che ho avuto è stata che lo stavo portando a casa sua. Mi è parso che accadesse questo: ciò che era un non-oggetto privo di valore, se non per me, nell’oltremondo aveva l’aria di diventare un oggetto reale con un suo valore, anche per altri. Così ho speso la mia bella quota di energia assassina (alcune blockchain consumano un sacco di energia, è il loro grande tallone d’Achille ma anche la loro garanzia di sicurezza) e sono andato fino in fondo, coniando quel file, facendone un NFT e ora mettendolo all’asta. Tutto quello che accadrà sarà un modo di imparare.
Per ora trovo abbastanza elettrizzante che da stamattina, un paio di settimane da quando l’ho iniziata, la mia opera sia disponibile a tutto il mondo, senza alcun filtro, e senza che giri un solo euro.
Trovo affascinante il fatto che tra un mese venderò un solo esemplare di quell’opera, quello autentico, e su quell’unica operazione poggia l’intero valore economico della faccenda. Come business ha un design surrealista, quasi irresistibile.


Il resto lo capirò quando accadrà. E lo racconterò quando lo capirò. L’ho detto, non finirò mai di scriverlo, quel libro.